lunedì 27 giugno 2016

27 giugno 2016 - La verità

Del questionario di Proust, come scrivevo un paio di anni fa, sono una buona conoscitrice. Leggo regolarmente le risposte dei vip pubblicate negli inserti femminili dei quotidiani.
Tutta questa esperienza, tuttavia, non mi serve quando alla domanda "Qual è il tuo peggior difetto?" l'intervistato risponde "La sincerità" - cosa che avviene piuttosto spesso.
Quanta ipocrisia! Che sfacciataggine! Non riesco a non indignarmi ogni santa volta.
Un difetto vero è: sono tirchio e non pago i miei Autori alla scadenza. Sono disonesto ed evado le tasse. Sono un maiale e (censura). Ma questo, naturalmente, non lo confesserà mai nessuno, in un'intervista da pubblicare su giornalesse famose.
Quindi, al posto di un difetto, l'ipocrita di turno coglie l'occasione per attribuirsi quello che è indiscutibilmente un pregio.


Il valore della sincerità a me è stato insegnato da mia madre.
Uno dei suoi metodi didattici: le sberle.
Ricordo che una volta, sobillata alla trasgressione da mia sorella, invece di pipparci un'ora di noiosissima ginnastica medica, siamo andate insieme ad una festicciola. "Non devi dirlo assolutamente alla mamma!", si era raccomandata la mia capa.
Quindi, una sera arrivo a casa da non so dove, pochi giorni dopo, e mia madre mi aspetta sulla porta.
"Dove sei andata mercoledì pomeriggio?" mi chiede lei, severa. "A ginnastica medica, mamma!", rispondo io, come Cappuccetto Rosso alle domande del lupo. Bam! Un ceffone. "E non osare più dire bugie a me!" aggiunge mia madre al ceffone, con cipiglio educativo. 
Mia sorella nel frattempo aveva già confessato, non so se con beneficio di sberle o senza, e se ne stava sdraiata tranquilla sul suo letto in cameretta. Non mi pare che abbiamo mai più parlato di questo episodio.

Un altro metodo didattico di mia madre: l'ipnotismo.


Mi ripeteva continuamente: Sono la tua mamma, come potrei dirti bugie? Sono la tua mamma, come potrei dirti bugie?
E io le ho creduto ciecamente, per diversi anni.

Il terzo supporto utilizzato da mia madre: l'esempio. 
In effetti, a onor del vero, non mi pare che in fondo in fondo mi abbia poi mentito più di tanto.

Però ogni tanto lo faceva, di modo che se a quei tempi mi avessero chiesto quale fosse la differenza tra adulti e bambini (altra domanda tipica dei questionari per vip che si trovano nelle riviste femminili), io avrei risposto: i bambini devono sempre dire la verità, mentre gli adulti hanno facoltà di manipolarla.

Detto ciò, so di essere una persona sincera.
Ho tanti difetti, ma non dico bugie e non assumo atteggiamenti ipocriti.
Mi rendo conto, peraltro, che questo atteggiamento mi rende assolutamente noiosa e prevedibile.
Se il mistero è una componente fondamentale del fascino, io sono davvero, inesorabilmente tagliata fuori.



Mia madre, dicevo, ogni tanto mentiva, e io me ne accorgevo.
La scoperta, ieri come oggi, provocava in me dei veri e propri traumi.

C'è stato un caso, però, in cui io sono profondamente grata a mia madre per avermi detto una bugia.

Avevamo una gattina a tre colori, che era tanto sciocca quanto adorabile.
Si è ammalata presto, questa micia, gonfiandosi come un pallone. Una malattia inguaribile, dal nome ipocritamente stupido: mi sembra di ricordare che si trattasse di PIF.
Quando fu chiaro che la piccola non sarebbe mai guarita, mia madre la portò dalla veterinaria a farla addormentare.

Si trattava di una veterinaria da incubo.
Allora non esistevano i social network, altrimenti avremmo saputo che aveva rovinato tanti animaletti del quartiere.
Tant'è.

Quando mia madre arrivò a casa, mi mostrò il trasportino vuoto dicendo: "Le ha fatto una punturina e lei si è addormentata subito, tranquilla".

Anni più tardi, invece, nel riandare le favolose vicende delle nostre stirpi gattesche, non ricordando l'antica versione dell'episodio che mi aveva proposto, mia madre raccontò: "Pensa a quella maledetta donna che si spacciava per veterinaria: quando le ho portato la micetta a sopprimere, non so come abbia fatto ma è riuscita a farle soffrire le pene dell'inferno, prima di morire...".

E questa bugia, in una mamma che ha sempre predicato la verità come virtù essenziale, paradossalmente rimarrà per sempre l'esempio più alto di sensibilità, generosità e preveggenza che io possa attribuirle.
Una mamma che vuole risparmiare alla sua bambina il pensiero della morte atroce del suo micio, e mente. 
Cosa c'è di più bello?

Quindi, se mai fossi nella posizione di dare consigli a qualcuno, quello di oggi sarebbe: mentite spudoratamente almeno una volta al giorno. 
Usate l'immaginazione, la fantasia e la creatività - e rendete il mondo un posto migliore.


Buona settimana


Silvana



lunedì 20 giugno 2016

20 giugno 2016 - Morfina

Giorni fa non c'ero.
Ero in viaggio. Ero all'estero.
Se aveste chiamato a casa (ma chi telefona più a un numero fisso? Giusto i molestatori delle vendite...) nessuno avrebbe risposto.
Nessuno puliva (meno che meno). Nessuno cucinava.
Il vuoto fisico.

Poi, sono tornata.
E mi sono abbandonata a un'attività che persino durante il mio viaggio di tanto in tanto anticipavo con piacere.

Mi sono piazzata davanti allo schermo del computer e ho ripreso a guardare la seconda stagione di Mad Men,



staccandomi dal divano solo per le funzioni di base, quali mangiare, dormire, andare al lavoro, badare a Titina, vedere la mamma.
Insomma: c'ero?
No. Ero a casa, al mio solito posto, ma non c'ero per niente.
Come se fossi partita per un paese straniero.

Le serie televisive sono una forma di spettacolo relativamente nuova che ha sollevato un grande interesse da parte di critici e studiosi.
E del pubblico, natuiralmente.
Oramai, le snobbano solo gli pseudo-intellettuali milanesi (e qui cito una categoria dell'anima, non un gruppo sociale), che storcono il naso a significare "Ho ben altro di cui occuparmi...".
Come si suol dire: quelli che non guardano la televisione - ma volentieri la farebbero.

Lungi da me lanciarmi in analisi sociali o artistiche di queste creazioni.
Riporterò solo qualche considerazione personale. 

E dunque.

Alla base di tutto, la premessa essenziale dell'arte: le serie televisive sono coinvolgenti e belle.
Sono belle in modo ingenuo, archetipico, essenziale.
La narrativa si è evoluta verso la sperimentazione e la ricerca intellettuale.

Inline image 1
Da Google Images

per non parlare della pittura

Inline image 2
Tela strappata di Fontana (Google Images)

o della musica

Le serie televisive, come ogni forma d'arte alle origini, sono fatte per attrarre e piacere.
E se Shakespeare fosse nato ai giorni nostri - lui, che scriveva per le masse del Globe Theatre - probabilmente sarebbe stato un autore di serie TV.

Le serie TV, dunque, scatenano in me delle reazioni primitive.
Ad esempio, se incontrassi per strada alcuni personaggi, li prenderei a ceffoni, perché li detesto.
Come non odiare Brenda Chenowith di Six Feet Under? 
E' una donnaccia falsa bugiarda viziata e non si merita per niente di stare con Nate, che poveraccio la molla solo pochi istanti prima di SPOILER NON LEGGETE! tirare le cuoia.


E, naturalmente, a volte mi innamoro.
Più o meno.

Inline image 1
Don Draper di Mad Men: più che un uomo, un monumento al di là della categoria del bello.

Mi piace farmi stupire dalle idee degli autori.
Mi piace pensare: ma questo come gli è venuto in mente?
Mi piace divertirmi vedendo quello che capita, senza che me lo aspettassi mai.
(Se vi impressiona il sangue non guardate quanto segue)


Mi piace appassionarmi ai rovelli etici, alle evoluzioni dei personaggi (in genere verso il Male).


Mi piace l'oscillare dei personaggi tra bontà e cattiveria.
Come spettatrice lo trovo piacevolmente destabilizzante: mi fa pensare che faccio parte di un pubblico evoluto, che apprezza le creazioni di menti sofisticate. E mi fa sentire le serie TV più vicine alla vita vera.
Nella vita vera, infatti, sarebbe tutto più semplice se gli altri fossero del tutto buoni, o del tutto cattivi. Ma non è mai così.


Mi piace sentire che, nonostante il piacere immediato della "fruizione", nonostante la fiction, attraverso le serie TV si elabora l'appartenenza culturale a una società, e si cerchi di capire la propria realtà e la propria storia.

(scena finale di Mad Men, serial ambientato nel mondo della pubblicità americana)

Ma più di ogni altra cosa mi piace sapere che, con tutte le serie TV che esistono e su cui posso mettere le mani, ho a mia disposizione un mare immenso in cui naufragare spensieratamente.

Immaginate: all'improvviso siete fulminati dal sacro fuoco della gastronomia, e capite che davanti davanti a voi si spalanca un universo di ricette nuove da provare.

Anche se con le serie TV non è esattamente così.
Perché chi scopre le ricette si deve poi mettere a cucinare.
Chi ama leggere - come è il mio caso, da quando sono in grado di farlo - deve sfogliare i libri, passare gli occhi sulle righe, elaborare la pagina... 
Che fatica!

Invece, le serie TV sono come un libro che si legge da solo nella vostra mente.

Qualche giorno fa un collega parlava di un racconto russo di cui non ricordava l'autore, in cui il protagonista, di cui non ricordava quale disastro storico dovesse affrontare, comunque tirava avanti fregandosene di tutto al mondo, perché tanto aveva il suo segreto per stare bene.

Inline image 1

Ecco: se volete pensarmi felice, immaginatemi mentre guardo una serie TV che mi piace, attaccata allo schermo del pc come ad una flebo di morfina.

Valar morgulis.





E buona settimana, naturalmente.


Silvana 


lunedì 13 giugno 2016

13 giugno 2016 - Il citofono

Cosa fate quando i Testimoni di Geova cercano di attaccarvi un bottone per fare proseliti?
Discutete con loro di alte questioni teologiche?

Inline image 1
Albrecht Durer: Gesù tra i dottori

O li mandate a quel paese con espressioni colorite?

Io, un paio di anni fa, quando ho ricevuto una loro gentile citofonata:"Signora, vorremmo parlare con lei della fine del mondo e dell'Inferno", ho gentilmente risposto che non ero interessata.
Loro hanno desistito senza insistere.
Ma dopo di allora, il mio citofono non ha più funzionato. 
Sentivo le voci dalla strada a sollevare la cornetta, riuscivo ad aprire il cancello per chi aspettava fuori, ma la suoneria no, in casa non squillava più.
I Testimoni di Geova si sono voluti vendicare e me l'hanno manomessa?
Che dispettosi...
Oppure, portano semplicemente sfortuna?



Non lo so.
Fatto sta che, subito dopo aver verificato il guasto, ho telefonato all'Amministratrice del mio stabile, la quale a sua volta mi ha fatto chiamare dall'elettricista incaricato.
L'elettricista incaricato ha vaticinato: "Signora, deve cambiare tutto il blocco. Sono 80 euro".
Io ho ribattuto che certamente si trattava di un problema di contatti, e che sarebbe bastato che passasse a dare un'occhiata... Quello mi ha spiegato che comunque avrei dovuto pagargli l'uscita, l'esame del problema e la riparazione, perché con ogni probabilità il guasto era mio personale e non condominiale, quindi con la cifra si andava comunque intorno agli 80 euro iniziali.
Io non ho avuto voglia di farmi imbrogliare, ma non ho avuto nemmeno voglia di insistere.
Morale della favola: sono rimasta senza citofono diversi mesi.
Mia sorella e le mie amiche, che lo sapevano, quando arrivavano sotto casa mia, per farsi aprire, mi facevano squillare il cellulare.
Tutto qui.

Ma una decina di giorni fa, il destino ha segnato una svolta.

Ero sotto casa a cambiare una gomma della mia bici, e due vicini sono intervenuti spontaneamente ad aiutarmi.

Lo ripeto: due vicini mi hanno aiutato a cambiare una gomma, il che di per sé è già un evento molto bello, che mi ha fatto stare bene per diverse ore.

Poi, il discorso è caduto sul mio problema col citofono.
Il mio vicino mi ha raccontato che a li era successa la stessissima cosa, ma che lui, insistendo un po', è riuscito a farsi riparare il guasto a spese del condominio.

Io torno all'attacco.
Scrivo all'Amministratrice raccontando che voglio lo stesso trattamento del mio vicino per lo stesso problema.
L'elettricista Christian, dopo un paio di giorni, viene e mi ripara il guasto in 3 minuti. 
Fuor di metafora.

Quindi, lo annuncio al mondo: il mio citofono adesso funziona.

C'è un fatto, però.

Per tutti questi mesi io ho vissuto tranquilla.
Adesso, invece, chiunque può passare e schiacciare il mio pulsante.

Testimoni di Geova - vecchie conoscenze.
Agenti immobiliari che vogliono sapere se e chi vende appartamenti nel mio stabile.
Vicini che hanno perso le chiavi di casa.
Malintenzionati.
Buontemponi.


Insomma: chiunque, adesso, mi può disturbare.
Quindi, farsi riparare il citofono è stato davvero un bene?

Allo stesso modo, quello che ci accade e ci sembra un male, sarà davvero un male?

Ad esempio: giorni fa, una mia collega mostrava a un'altra il filmato di sua figlia che usciva da scuola insieme a tante altre bambine, e commentava estasiata: "Guarda, è la più deliziosa di tutte!".


Quello che ho pensato io, immediatamente, è stato: "Una figlia mia, assomigliando a me, sarebbe stata la più brutta di tutti".
E dunque, il mio ragionamento è questo: in fondo è un bene, e non un male che io non abbia avuto bambini.
Perché, come mia madre con me, probabilmente una figlia non sarei stata capace di farla sentire né amata, né bella.

Ma conoscere il bene e il male delle cose non è dato a nessuno.
Possiamo solo raccontarci delle storie.
Io, quando avevo iniziato a scrivere, tanti anni fa, avevo pensato questa.


Per una buona azione paghi sempre

Nastasja Filipovna aveva i tacchi alti e non poteva correre. Camminava quindi il più veloce possibile verso la fermata dell’autobus, sperando con tutta se stessa di non perdere la corsa delle 16.50, perché in questo caso non sarebbe arrivata alla stazione in tempo per prendere l’ultimo treno che andava fino alla vicina città di M. dove, come le aveva detto la sua amica Ljuda, una famiglia cercava con estrema urgenza qualcuno che si prendesse cura di una vecchia signora malata.
“La famiglia domani mattina parte per le vacanze. Hanno già visto altre ragazze, ma non gliene è piaciuta nessuna. Io li conosco, curavo una vicina, sono bravi, hanno chiesto a me ma io adesso ho un altro lavoro. Tu telefona, corri a farti vedere, questo è il numero e questo è l’indirizzo. Sono sicura che vai bene. Auguri!”, le aveva detto la sua amica Ljuda.
Nastasja – Nastja per gli amici – aveva subito chiamato e aveva fissato un appuntamento. Ecco quindi che si affretta verso la fermata dell’autobus, e l’autobus già arriva, è un puntino in fondo alla strada, fra non molto girerà a destra, si fermerà per far salire i passeggeri, e lei dovrà essere tra quelli.
Lungo il percorso verso la fermata c’è un incrocio. Per fortuna il semaforo è verde! Ma dal finestrino di un camion fermo alla destra di Nastja un autista indiano si sporge e chiede:
“Scusa, signora, come arrivo a via Clerici?”
Nastja ha paura di perdere l’autobus, vuole fingere di non aver sentito ma subito le spiace, sono soli, nessun altro potrebbe dargli quell’indicazione, ricorda le volte che lei ha chiesto aiuto e che le è stato dato, allora si ferma e comincia a spiegare:
“Gira sinistra e poi subito destra… No, no, non devi, quella è strada stretta, tu non passi. Allora, adesso penso… Tu fai così: vai destra, a primo semaforo sinistra, in fondo a strada sinistra, poi subito destra. Capito?”. E ripete.
L’autista sorride, è contento, ringrazia e saluta con la mano, rombando col suo camion gira a destra e se ne va.
Ma anche l’autobus, che nel frattempo è arrivato, se ne va indifferente, senza Nastasja, che così non potrà arrivare in tempo alla stazione, non prenderà il suo treno e resterà senza lavoro ancora per un po’.
“Me lo diceva la nonna, per una buona azione paghi sempre!”, si lamenta Nastja disperata, con le lacrime agli occhi, picchiando un piede a terra. “Sono proprio un’idiota, non ho imparato niente da lei!”, e la assale una nostalgia incontenibile per Nastasja Petrovna, la nonna amatissima di cui porta il nome, così che un tempo le chiamavano Nastasja Grande e Nastasja Piccola, per distinguerle.
Anche la nonna, d’altronde, fino alla fine aveva fatto quell’errore e non aveva mai negato un aiuto a nessuno, perché era la persona più dolce e buona sulla faccia della terra. Salvo poi tornare a ripetere ogni volta, sorridendo e sospirando rassegnata, quel proverbio così vero: a far del bene c’è sempre da pentirsi.
Allora, Nastasja Piccola si asciuga le lacrime dagli occhi, si chiede come potrà spiegare a Ljuda che ha sprecato il suo buon consiglio, quindi si gira e si avvia mogia mogia verso casa, pensando male del camionista indiano e anche di sé, con lo sguardo fisso a terra.
Ma questa è una cosa che so io, e lei non sa: se avesse preso quel treno, Nastasja sarebbe stata derubata da un insospettabile signore brizzolato in completo grigio, che nello scendere, una volta arrivati in stazione, le avrebbe infilato con destrezza una mano nella borsa estraendone a proprio uso e consumo il portafogli.
E pazienza per i soldi, che non erano tanti, anche se per chi ha poco persino un centesimo ha valore.
I documenti, poi, Nastja li avrebbe recuperati dopo un paio di giorni di tormento, perché il signore in grigio, provando scarso interesse per un passaporto ucraino con relativo permesso di soggiorno, li avrebbe cortesemente gettati in una cassetta delle lettere.
Ma Nastasja avrebbe pianto fino alla morte la perdita della fotografia della nonna, l’unica rimastale, che teneva nel portafogli per averla sempre vicina. In quella immagine, Nastasja Grande era sorridente e tranquilla, aveva gli occhi azzurri rivolti verso il cielo, il fazzolettone a fiori legato sotto il mento e la lunga gonna rossa con una striscia rosa in fondo, proprio come la rivedeva la Piccola nei suoi ricordi di bambina. Si scorgeva anche la casetta di legno della campagna di Kiev dove Nastja aveva trascorso tanti giorni della sua infanzia, e seduto in primo piano c’era il gatto rosso Kumir, uno degli ultimi che la nonna aveva avuto. Lui, a differenza della padrona, guardava dritto dritto nell’obiettivo della macchina fotografica, ma tant’è, Kumir era sempre stato un gatto sfacciato.
Invece, Nastasja non ha preso il treno e non ci ha rimesso il portafogli.
E non è neanche andata alla Polfer a sporgere denuncia per il furto, e qui non ha conosciuto Vito, un poliziotto affascinante, alto moro e con i baffi neri, che si sarebbe innamorato di lei e con cui si sarebbe fidanzata in un fidanzamento lunghissimo. Senza mai sposarlo, però, perché alla mamma di Vito le straniere non piacciono, e alla fine, quando Nastasja non fosse più stata tanto giovane, gli avrebbe trovato una nuova fidanzata Giusi, di San Michele di Bari proprio come lui, con cui Vito si sarebbe sposato da un giorno all’altro e che gli avrebbe dato tre figli mori e, a suo tempo, con i baffi neri.
Infine, Nastasja sulla strada del ritorno non ha preso la brutta storta alla caviglia che l’avrebbe costretta a rimanere diversi giorni a casa, facendole perdere comunque il suo nuovo lavoro, perché la famiglia della vecchia signora di cui Nastja si sarebbe dovuta prendere cura proprio non poteva aspettare, e avrebbe subito cercato qualcun altro, lasciandola a punto e a capo.
Ma Nastja tutto questo non lo sa, sa solo che ha perso una buona occasione e che le sono rimasti pochi soldi in tasca, quindi, dicevo, si avvia mogia mogia verso casa, pensando male del camionista indiano e anche di sé, con lo sguardo fisso a terra.
Ed ecco che a terra, tra i mozziconi di sigaretta e le cartacce, Nastja vede qualcosa luccicare, si china e lo raccoglie: è un anellino d’oro rosso, una veretta uguale a quella che la nonna portava a un dito della mano destra.
Nastja la sfrega sulla gonna, se la mette, guarda come le sta e sorride. Pensa che la nonna le tiene una mano sulla testa ed è contenta.
“Adesso passo per supermercato e compro yogurt”, dice tra sé e sé, “Telefono a Ljuda, stasera la invito a casa mangiare blini, stiamo un poco insieme”.


Buona settimana!


Silvana



lunedì 6 giugno 2016

6 giugno 2016 - Cavalli

Fino a qualche anno fa, non uscivo di casa se non avevo almeno una bustina di zucchero nella borsa.
Poteva servire a me, ne caso di improvvise crisi ipoglicemiche, certamente.
La mia segreta speranza, però, era quella di imbattermi all'improvviso in un cavallo, e di potergli offrire qualcosa di buono da mangiare.

I cavalli sono stati la mia prima passione infantile.
Da piccola, mi struggevo dal desiderio di poterne avere uno.
Come Pippi Calzelunghe, non vedevo perché non avremmo potuto tenerlo in cucina.


In forma sotterranea, evidentemente, questo amore mi è rimasto dentro.

Durante una delle mie scorse vacanze, a Palermo, mi sono imbattuta in uno dei cavallini che trasportano i turisti sui calessi. 
Non avevo zucchero con me, ma una mela sì, come mio solito, e ho chiesto al cocchiere se potevo dargliela da mangiare - scatenando la muta riprovazione della mia accompagnatrice.
Avete presente la faccia delle persone che non ti dicono apertamente: "Ma che sciocchezza! Ma che ridicola perdita di tempo!", però vorrebbero farlo?
Ebbene, la sua espressione un attimo dopo indicava chiaramente un bel "Te l'avevo detto, io!", perché lo scalcinato cavallino palermitano, mordendo la mia mela con un misto di rassegnazione e voluttà, ha fatto partire un corposo schizzo di succo che mi è finito dritto in faccia.

Succede.
Inline image 1
Cavalli a Palermo

Un paio di settimane fa sono stata in viaggio in Polonia.
Lì, ho incontrato cavalli di ogni tipo.

Inline image 2
Cavallino rosa del bar



Dal diorama di Breslavia: il cavallo di Tadeusz Kościuszko, l'eroe nazionale polacco


E, accidenti, anche quelli che tirano i calessi dei turisti non hanno niente a che vedere con i tristi quadrupedi che possiamo incontrare nelle nostre città turistiche.
Da quelle parti, i cavalli hanno l'aria più sana e più allegra, senza ombra di dubbio.

Inline image 3
Sempre a Breslavia, nella Piazza del Mercato

Ne parlavo con Magda e Przemek, i miei ospiti a Breslavia (Wroclaw, in Polacco), e ci siamo detti che probabilmente è merito del clima.
In Polonia i cavalli rifioriscono. Per contro, i cammelli si intristiscono: volevano dimostrarmelo portandomi allo zoo, ma non ne abbiamo avuto il tempo. Sarà per la prossima volta.

Prima ancora di Breslavia, ero stata due giorni a Cracovia.
Non ho mai visto tanti luoghi sacri quanti in quella città.
Chiese, certamente, ma anche una sinagoga del quartiere ebraico. Non ci facciamo mancare niente.
Il fatto è che quando sei sola giri giri per la città, e quando vedi qualcosa che ti sembra bello e interessante, entri, senza dover chiedere il permesso a nessuno.
Il vero frisson, personalmente, lo provo quando scopro il luogo che sento davvero mio.
Quello che nella mia guida personale, ad esempio, descriverei dicendo: "Lasciate perdere il Duomo. Scordatevi il retablo che si apre alle 10 ogni mattina con uno squillar di trombe. Troppo noto... Troppi turisti... 
Venite piuttosto alla Basilica della Santa Trinità, a immaginare le stelle di questo cielo,

Inline image 4

ad ammirare questi due bei Signori che troneggiano sull'altare,

Inline image 1
...e c'è anche lo Spirito Santo!

a pensare che questa Chiesa è davvero "la tua".

Oppure, a me piace scoprire, all'interno di un luogo, il particolare che mi colpisce più di ogni altro, quello che mi fa dire: "Sono entrata qui per lui".
Ad esempio: voi avete mai pensato alla Madonna come a una primipara attempata? No?
E certo: le Scritture ci dicono che era poco più di una ragazzina, quando ha dato alla luce il Bambin Gesù.
Questa immagine originalissima, invece, ci riporta a una idea della maternità ritardata, più in linea con le tendenze di oggi


Cracovia - ​Chiesa di San Bernardino

E io l'ho trovata stupenda.

Anche a Cracovia c'erano dei bei cavallini.
Sulla Piazza del Mercato lavoravano in coppia, scelti con sapienza per assomigliarsi in dimensioni e colore.

Inline image 2

Non sono bastati, però, a trattenermi lì per tutto il periodo che avevo programmato.
Da Cracovia sono scappata 24 ore in anticipo, spinta dal maltempo e dal Corpus Christi - una festa religiosa di cui nel nostro Paese, per quanto cattolico, si sa poco, ma che là fa chiudere i musei, mia meta programmata per l'ultimo giorno.
Per fortuna, Magdalena è intervenuta con un messaggino salvifico: "Vieni qui subito a Breslavia da noi!".
E sono partita.

Dunque, seduti a un ristorante della Piazza del Mercato parlavamo di cavalli, noi tre, e io dicevo che quelli di Cracovia sembrano ancora più felici che a Wroclaw.
Per la semplice ragione che a Cracovia lavorano in due, e passano tutto il giorno a trottare insieme, oppure stanno sulla bella piazza ad aspettare il prossimo giro sempre insieme, mentre si sbaciucchiano e se la raccontano nelle orecchie e si sfregano i musi e le froge e i colli, insieme insieme insieme.

Quindi io penso che nella vita quello che conta è non essere da soli, e se sei solo allora sì che te la passi proprio male.

Forse, in questi casi, l'unica cosa che ti salva è avere un amico che ti dice "Vieni qui!".

Un amico, e la capacità di reinventarti il mondo, come se nella tua testa potesse davvero diventare un posto nuovo.

Come se fossi davvero capace di avere un punto di vista personale.

Inline image 3
Le casette della Piazza del Mercato viste dal Palazzo Comunale


Buona settimana!



Silvana