Io ho una pessima memoria.
Non sono in grado di riferire una conversazione
battuta per battuta. Non ricordo i nomi delle persone, degli artisti, dei
movimenti artistici, dei personaggi storici.
Li sapevo – li ho dimenticati.
Ignorante è chi non impara mai e chi dopo aver
imparato, dimentica.
Anche dei libri che leggo e dei film che vedo
mi rimangono ricordi molto nebulosi.
Rivivono in me come se fossero sogni: i segni
che lasciano sono sensazioni abbastanza
vaghe di piacere o noia, trame semplificate, e certamente mai i nomi dei
personaggi.
Con delle eccezioni.
Le eccezioni sono rappresentate da quelle
scene, quei personaggi, quelle battute che confermano con particolare bellezza
ed evidenza ciò che io sono – oppure, che in qualche modo lo determinano.
Ad esempio, in una delle scene finali de
"Le conseguenze dell'amore", di Sorrentino (N.B.: ho dovuto cercare il titolo
esatto in google), si vede il protagonista – un mafioso di mezz'età che vive isolato
dal mondo, in un albergo svizzero, e sta per venire eliminato dai suoi colleghi
per averli traditi in nome del suo ultimo sogno d'amore (N.B.: così ricordo la
trama, ma non è detto che sia proprio esatta) – si vede il protagonista,
dicevo, che dedica uno dei suoi ultimi pensieri all'unico vero amico che abbia
avuto in vita, e che ancora sa essere amico suo, sebbene non lo veda da anni e
anni.
Un tecnico della compagnia elettrica che
vediamo arrampicarsi solitario ed eroico su un palo, durante una tempesta di
neve, per riallacciare dei cavi.
E questo per me è l'amicizia.
Un'assenza.
E tuttavia, una consapevolezza che mi sostiene.
Una comunicazione a distanza.
Una fede.
Una fede.
Vedo le mie colleghe quando lavoro.
Frequento regolarmente mia madre e mia sorella.
Organizzare degli incontri con le mie amiche,
il più delle volte, pare sia Mission Impossible.
Ho quasi rinunciato.
Ma non rimprovero niente a nessuno: la vita
moderna è difficile e pesante. D'inverno fa freddo. D'estate fa caldo. Abbiamo
tanti problemi. Poco tempo. Siamo sempre stanchi – io per prima.
E' troppo grande la città.
Io non ho una famiglia mia, ma so cosa voglia
dire averla, perché so cosa mi manca quando sono da sola, giorno dopo giorno e
minuto dopo minuto.
Ma non voglio parlare della solitudine.
La solitudine è una cosa imbarazzante. Più dei
segni di un'ustione. Più della puzza di piedi.
Non parlo della solitudine con chi non è solo,
perché chi ha fame non parla della propria fame con chi mangia regolarmente.
E non parlo della solitudine con chi è solo
come me, perché pare sia obbrobrioso vedere riflesso negli altri questa specie
di marchio d'infamia.
E dunque, in questi giorni in cui sono stata in
casa per lo più da sola, con braccia e spalle acciaccate dai dolori dell'artrosi
cervicale, e a misurarmi con la prospettiva di dover soffrire d'ora in poi di
dolore cronico, mi sono venuti in mente i conventi.
Chi lo sa: forse non si sono trovate così male
le suorine nei conventi, nel corso dei secoli.
Erano donne che potevano contare sulla continua
presenza di eguali.
E nel condominio dove ho vissuto un paio di
settimane l'estate scorsa, in Germania, un gruppo di amiche senza famiglia
tradizionale si sono organizzate per vivere vicine, ciascuna nel suo
appartamento.
Che soluzione geniale... Che bella tradizione
nordica...
Dico nordica, perché tanti anni fa, quando sono
stata ad Amsterdam, ho visto un bellissimo "cortile di zitelle".
L'ingresso
Tradizionalmente, arrivate a una certa età, le
donne sole avevano (e hanno tutt'ora, mi pare, ma non ricordo bene, of course) il
diritto di ottenere un'abitazione in un condominio tutto per loro.
Una decorazione del cortile
E non me le immagino disperate.
Non me le figuro incattivite, litigiose,
pettegole e rancorose.
Me le vedo allegre e un poco sbevazzone,
solidali e forti.
Spaventose, persino, col loro mattarello tra le
mani, pronte a difendere i propri diritti.
Che bella vicinanza!
Quante mazzate col mattarello a chi manca di rispetto!
E che forte sensazione di essere nata nel posto
sbagliato...
Buona settimana
Silvana
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