lunedì 10 settembre 2018

10 settembre 2018 - Adriana Pellegrini

Per me è sempre una gioia scoprire nuovi autori che mi piacciono.
Quando incontro uno scrittore che sento affine, è come se mi si aprisse un mondo nuovo.
E adoro la prospettiva di poter passare tante ore in buona compagnia, nelle mie giornate, leggendo tutte le sue opere.

Ultimamente, per puro caso ho incrociato questo librino di Monica Dickens, una pronipote del grande Charles.



Non ero ancora arrivata a pagina 50 che già consultavo il catalogo delle biblioteche per programmare le mie prossime letture.

Monica Dickens appartiene alla famiglia delle scrittrici leggere di grande spirito, di cui fa parte anche Stefania Bertola e non so chi altro - perché altre per ora altre così non ne ho scoperte.
Più che autrici, delle vere benefattrici dell'umanità, molto più grandi di Kafka o Oscar Wilde o Pirandello. Io, ad esempio, preferirei leggere 50 romanzi di Stefania Bertola (peccato non ne abbia scritti così tanti) che un solo racconto di Kafka, per il semplice fatto che la Bertola o la Dickens mi mettono di buon umore - e Kafka no.

Dunque, nello specifico: Su e giù per le corsie è un memoir del periodo che Monica trascorse lavorando come infermiera in un ospedale poco lontano da Londra, durante la Seconda Guerra Mondiale. 
Il ritmo, l'auto-ironia, il tono, l'ambientazione inglese e il periodo ne hanno fatto per me una lettura avvincentissima.

(Ad esempio, leggete questo episodio di Monica in sala da ballo. Io mi sono sbellicata)

Certamente, ha contribuito a farmelo apprezzare la bella traduzione, che pur essendo datata - unico segno: i personaggi si danno del voi - sembra risalire all'altroieri.
In effetti, questo "Su e giù per le corsie" è già stato pubblicato in Italia col titolo "Un paio di piedi", nel 1955.
Controllo a catalogo, e vedo che la traduttrice è sempre la stessa, Adriana Pellegrini.

Mi cade l'occhio sulle note dell'edizione attuale, trovo questo appello:


e il sangue mi si gela un po'.

L'impressione è la stessa di quando mi divertivo a leggere le pubblicazioni di matrimonio negli albi pretori dei comuni: pochi dati per immaginare tutta una storia.

E dunque: che cosa è stato di Adriana Pellegrini - una donna dal nome così bello?
Una donna che negli anni '50 già si manteneva da sé traducendo, e lavorava bene.
Io la immagino bionda, grande fumatrice, chiusa in una stanza che dà su un cortile interno, di quelli in cui giocavano i bambini forse ancora col cerchio. Ticchetta su una macchina da scrivere.
Era intelligente, Adriana. Aveva studiato all'Università durante la guerra, aveva vissuto nella Londra che ancora portava i segni dei bombardamenti - forse si era innamorata lassù.
Chissà se ha partecipato al '68... Secondo me sì. E' probabile.

Però era sfortunata in amore.
Non si è fatta una famiglia. E' rimasta sola, senza eredi.

In vita, aveva sempre fatto fatica a mantenersi col suo lavoro... E adesso che la cercano per darle qualche soldino in più, non c'è più nessuno a rispondere all'appello.
Sembra incredibile, oggi che tutti sono in grado di lasciare una traccia in internet - e anzi magari c'è qualcuno che cerca di sparirne.

Ma chi lo sa... 
Magari Adriana ha incontrato un simpaticissimo australiano che faceva parte di una delegazione diplomatica per cui lei ha fatto l'interprete, a Roma, ed è andata a vivere in quella terra bruciata dal sole.

Adesso i suoi discendenti allevano cammelli nel deserto intorno a Perth, e delle traduzioni della nonna non sanno niente di niente.
Tutto quello che gli è rimasto di lei è una ricetta scritta con l'inchiostro azzurro su un foglietto molto ingiallito, ma a Perth fa troppo caldo per mangiare il risotto alla milanese.

E poi, come farebbero a leggerla? 
Non sanno l'italiano.


Buona settimana!

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