lunedì 13 giugno 2016

13 giugno 2016 - Il citofono

Cosa fate quando i Testimoni di Geova cercano di attaccarvi un bottone per fare proseliti?
Discutete con loro di alte questioni teologiche?

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Albrecht Durer: Gesù tra i dottori

O li mandate a quel paese con espressioni colorite?

Io, un paio di anni fa, quando ho ricevuto una loro gentile citofonata:"Signora, vorremmo parlare con lei della fine del mondo e dell'Inferno", ho gentilmente risposto che non ero interessata.
Loro hanno desistito senza insistere.
Ma dopo di allora, il mio citofono non ha più funzionato. 
Sentivo le voci dalla strada a sollevare la cornetta, riuscivo ad aprire il cancello per chi aspettava fuori, ma la suoneria no, in casa non squillava più.
I Testimoni di Geova si sono voluti vendicare e me l'hanno manomessa?
Che dispettosi...
Oppure, portano semplicemente sfortuna?



Non lo so.
Fatto sta che, subito dopo aver verificato il guasto, ho telefonato all'Amministratrice del mio stabile, la quale a sua volta mi ha fatto chiamare dall'elettricista incaricato.
L'elettricista incaricato ha vaticinato: "Signora, deve cambiare tutto il blocco. Sono 80 euro".
Io ho ribattuto che certamente si trattava di un problema di contatti, e che sarebbe bastato che passasse a dare un'occhiata... Quello mi ha spiegato che comunque avrei dovuto pagargli l'uscita, l'esame del problema e la riparazione, perché con ogni probabilità il guasto era mio personale e non condominiale, quindi con la cifra si andava comunque intorno agli 80 euro iniziali.
Io non ho avuto voglia di farmi imbrogliare, ma non ho avuto nemmeno voglia di insistere.
Morale della favola: sono rimasta senza citofono diversi mesi.
Mia sorella e le mie amiche, che lo sapevano, quando arrivavano sotto casa mia, per farsi aprire, mi facevano squillare il cellulare.
Tutto qui.

Ma una decina di giorni fa, il destino ha segnato una svolta.

Ero sotto casa a cambiare una gomma della mia bici, e due vicini sono intervenuti spontaneamente ad aiutarmi.

Lo ripeto: due vicini mi hanno aiutato a cambiare una gomma, il che di per sé è già un evento molto bello, che mi ha fatto stare bene per diverse ore.

Poi, il discorso è caduto sul mio problema col citofono.
Il mio vicino mi ha raccontato che a li era successa la stessissima cosa, ma che lui, insistendo un po', è riuscito a farsi riparare il guasto a spese del condominio.

Io torno all'attacco.
Scrivo all'Amministratrice raccontando che voglio lo stesso trattamento del mio vicino per lo stesso problema.
L'elettricista Christian, dopo un paio di giorni, viene e mi ripara il guasto in 3 minuti. 
Fuor di metafora.

Quindi, lo annuncio al mondo: il mio citofono adesso funziona.

C'è un fatto, però.

Per tutti questi mesi io ho vissuto tranquilla.
Adesso, invece, chiunque può passare e schiacciare il mio pulsante.

Testimoni di Geova - vecchie conoscenze.
Agenti immobiliari che vogliono sapere se e chi vende appartamenti nel mio stabile.
Vicini che hanno perso le chiavi di casa.
Malintenzionati.
Buontemponi.


Insomma: chiunque, adesso, mi può disturbare.
Quindi, farsi riparare il citofono è stato davvero un bene?

Allo stesso modo, quello che ci accade e ci sembra un male, sarà davvero un male?

Ad esempio: giorni fa, una mia collega mostrava a un'altra il filmato di sua figlia che usciva da scuola insieme a tante altre bambine, e commentava estasiata: "Guarda, è la più deliziosa di tutte!".


Quello che ho pensato io, immediatamente, è stato: "Una figlia mia, assomigliando a me, sarebbe stata la più brutta di tutti".
E dunque, il mio ragionamento è questo: in fondo è un bene, e non un male che io non abbia avuto bambini.
Perché, come mia madre con me, probabilmente una figlia non sarei stata capace di farla sentire né amata, né bella.

Ma conoscere il bene e il male delle cose non è dato a nessuno.
Possiamo solo raccontarci delle storie.
Io, quando avevo iniziato a scrivere, tanti anni fa, avevo pensato questa.


Per una buona azione paghi sempre

Nastasja Filipovna aveva i tacchi alti e non poteva correre. Camminava quindi il più veloce possibile verso la fermata dell’autobus, sperando con tutta se stessa di non perdere la corsa delle 16.50, perché in questo caso non sarebbe arrivata alla stazione in tempo per prendere l’ultimo treno che andava fino alla vicina città di M. dove, come le aveva detto la sua amica Ljuda, una famiglia cercava con estrema urgenza qualcuno che si prendesse cura di una vecchia signora malata.
“La famiglia domani mattina parte per le vacanze. Hanno già visto altre ragazze, ma non gliene è piaciuta nessuna. Io li conosco, curavo una vicina, sono bravi, hanno chiesto a me ma io adesso ho un altro lavoro. Tu telefona, corri a farti vedere, questo è il numero e questo è l’indirizzo. Sono sicura che vai bene. Auguri!”, le aveva detto la sua amica Ljuda.
Nastasja – Nastja per gli amici – aveva subito chiamato e aveva fissato un appuntamento. Ecco quindi che si affretta verso la fermata dell’autobus, e l’autobus già arriva, è un puntino in fondo alla strada, fra non molto girerà a destra, si fermerà per far salire i passeggeri, e lei dovrà essere tra quelli.
Lungo il percorso verso la fermata c’è un incrocio. Per fortuna il semaforo è verde! Ma dal finestrino di un camion fermo alla destra di Nastja un autista indiano si sporge e chiede:
“Scusa, signora, come arrivo a via Clerici?”
Nastja ha paura di perdere l’autobus, vuole fingere di non aver sentito ma subito le spiace, sono soli, nessun altro potrebbe dargli quell’indicazione, ricorda le volte che lei ha chiesto aiuto e che le è stato dato, allora si ferma e comincia a spiegare:
“Gira sinistra e poi subito destra… No, no, non devi, quella è strada stretta, tu non passi. Allora, adesso penso… Tu fai così: vai destra, a primo semaforo sinistra, in fondo a strada sinistra, poi subito destra. Capito?”. E ripete.
L’autista sorride, è contento, ringrazia e saluta con la mano, rombando col suo camion gira a destra e se ne va.
Ma anche l’autobus, che nel frattempo è arrivato, se ne va indifferente, senza Nastasja, che così non potrà arrivare in tempo alla stazione, non prenderà il suo treno e resterà senza lavoro ancora per un po’.
“Me lo diceva la nonna, per una buona azione paghi sempre!”, si lamenta Nastja disperata, con le lacrime agli occhi, picchiando un piede a terra. “Sono proprio un’idiota, non ho imparato niente da lei!”, e la assale una nostalgia incontenibile per Nastasja Petrovna, la nonna amatissima di cui porta il nome, così che un tempo le chiamavano Nastasja Grande e Nastasja Piccola, per distinguerle.
Anche la nonna, d’altronde, fino alla fine aveva fatto quell’errore e non aveva mai negato un aiuto a nessuno, perché era la persona più dolce e buona sulla faccia della terra. Salvo poi tornare a ripetere ogni volta, sorridendo e sospirando rassegnata, quel proverbio così vero: a far del bene c’è sempre da pentirsi.
Allora, Nastasja Piccola si asciuga le lacrime dagli occhi, si chiede come potrà spiegare a Ljuda che ha sprecato il suo buon consiglio, quindi si gira e si avvia mogia mogia verso casa, pensando male del camionista indiano e anche di sé, con lo sguardo fisso a terra.
Ma questa è una cosa che so io, e lei non sa: se avesse preso quel treno, Nastasja sarebbe stata derubata da un insospettabile signore brizzolato in completo grigio, che nello scendere, una volta arrivati in stazione, le avrebbe infilato con destrezza una mano nella borsa estraendone a proprio uso e consumo il portafogli.
E pazienza per i soldi, che non erano tanti, anche se per chi ha poco persino un centesimo ha valore.
I documenti, poi, Nastja li avrebbe recuperati dopo un paio di giorni di tormento, perché il signore in grigio, provando scarso interesse per un passaporto ucraino con relativo permesso di soggiorno, li avrebbe cortesemente gettati in una cassetta delle lettere.
Ma Nastasja avrebbe pianto fino alla morte la perdita della fotografia della nonna, l’unica rimastale, che teneva nel portafogli per averla sempre vicina. In quella immagine, Nastasja Grande era sorridente e tranquilla, aveva gli occhi azzurri rivolti verso il cielo, il fazzolettone a fiori legato sotto il mento e la lunga gonna rossa con una striscia rosa in fondo, proprio come la rivedeva la Piccola nei suoi ricordi di bambina. Si scorgeva anche la casetta di legno della campagna di Kiev dove Nastja aveva trascorso tanti giorni della sua infanzia, e seduto in primo piano c’era il gatto rosso Kumir, uno degli ultimi che la nonna aveva avuto. Lui, a differenza della padrona, guardava dritto dritto nell’obiettivo della macchina fotografica, ma tant’è, Kumir era sempre stato un gatto sfacciato.
Invece, Nastasja non ha preso il treno e non ci ha rimesso il portafogli.
E non è neanche andata alla Polfer a sporgere denuncia per il furto, e qui non ha conosciuto Vito, un poliziotto affascinante, alto moro e con i baffi neri, che si sarebbe innamorato di lei e con cui si sarebbe fidanzata in un fidanzamento lunghissimo. Senza mai sposarlo, però, perché alla mamma di Vito le straniere non piacciono, e alla fine, quando Nastasja non fosse più stata tanto giovane, gli avrebbe trovato una nuova fidanzata Giusi, di San Michele di Bari proprio come lui, con cui Vito si sarebbe sposato da un giorno all’altro e che gli avrebbe dato tre figli mori e, a suo tempo, con i baffi neri.
Infine, Nastasja sulla strada del ritorno non ha preso la brutta storta alla caviglia che l’avrebbe costretta a rimanere diversi giorni a casa, facendole perdere comunque il suo nuovo lavoro, perché la famiglia della vecchia signora di cui Nastja si sarebbe dovuta prendere cura proprio non poteva aspettare, e avrebbe subito cercato qualcun altro, lasciandola a punto e a capo.
Ma Nastja tutto questo non lo sa, sa solo che ha perso una buona occasione e che le sono rimasti pochi soldi in tasca, quindi, dicevo, si avvia mogia mogia verso casa, pensando male del camionista indiano e anche di sé, con lo sguardo fisso a terra.
Ed ecco che a terra, tra i mozziconi di sigaretta e le cartacce, Nastja vede qualcosa luccicare, si china e lo raccoglie: è un anellino d’oro rosso, una veretta uguale a quella che la nonna portava a un dito della mano destra.
Nastja la sfrega sulla gonna, se la mette, guarda come le sta e sorride. Pensa che la nonna le tiene una mano sulla testa ed è contenta.
“Adesso passo per supermercato e compro yogurt”, dice tra sé e sé, “Telefono a Ljuda, stasera la invito a casa mangiare blini, stiamo un poco insieme”.


Buona settimana!


Silvana



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